Bulli si diventa


Bulli si diventa

Alice Onlus, rappresentata dalla dottoressa Tollardo e dalla Dottoressa Zanotta, ha collaborato con la Scuola di Giornalismo Walter Tobagi di Milano per un intervento scientifico sul fenomeno del bullismo. Di seguito, l’articolo firmato da Giulia Virzì.


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Storie di bullismo (e incomprensione)

 

Il 7 Febbraio è la Prima Giornata nazionale contro il Bullismo nelle scuole, promossa dal Ministero dell’Istruzione in coincidenza con la Giornata Europea di Sicurezza in Rete. Con lo scopo di implementare i fattori protettivi e ridurre i fattori di rischio, Alice Onlus lavora su questi temi da anni con interventi di prevenzione primaria nelle classi, ma anche attraverso la creazione di percorsi individuali di sostegno ai ragazzi coinvolti in queste situazioni. In questo articolo, curato dalla Dottoressa Tollardo e dalla Dottoressa Zanotta, raccoglie due storie con lo scopo di fare luce su cos’è, ma soprattutto su cosa non è “bullismo”.



Di Bullismo si sente parlare spesso: sui giornali, a scuola, tra genitori e insegnanti tanto che “bullismo” è ormai una parola che fa parte del nostro vocabolario. I dati sulla realtà italiana dicono che il 41% degli studenti di età compresa tra i 7 e i 18 anni, sia stato vittima di bullismo almeno una volta nella sua vita. La parola “Bullismo” genera ansia, angoscia e paura; come succede spesso con parole nate da un gergo “settoriale” e che diventano di uso comune, perdono in parte il loro vero significato, estendendolo anche a ciò che non è. Da un altro punto di vista, la possibilità di chiamare le cose con il loro nome le rende trattabili: se so cos’è, allora posso farmene qualcosa, posso anche trovare dei modi di intervenire; perché, quando qualcosa viene detta ad alta voce e da tante persone allora non si può più fare finta di nulla. Il bullismo però non è un fenomeno nuovo: c’è sempre stato, l’unica differenza, oggi è che abbiamo iniziato a parlarne.

Quando si può dire “bullismo”?


Il bullismo è una forma di comportamento sociale aggressivo e intenzionale, di natura sia fisica che psicologica, oppressivo e vessatorio, ripetuto nel corso del tempo e attuato nei confronti di persone considerate dal bullo (o dal gruppo) bersagli facili perché incapaci di difendersi e, soprattutto, isolate socialmente.


In occasione di questa giornata particolare, l’equipe di Alice Onlus vuole proporvi due storie differenti su cui riflettere. La prima, la storia di Alberto (nome di fantasia), racconta del bullismo nella fascia della scuola primaria; la storia di Giorgia (altro nome di fantasia), invece, racconta di come si possa lavorare su questo fenomeno nella fascia della preadolescenza.


La storia di Alberto (a cura della dott.ssa Zanotta)


“Sono qui per parlarle di mio figlio Alberto: fa la prima media e detesta andare a scuola, fosse per lui non uscirebbe proprio di casa la mattina e, lo so, la colpa è tutta di quello che è successo alle elementari e di cui ci siamo accorti quando era, ormai, troppo tardi.
Quando Alberto era in quarta elementare, io mi sono ammalata di cancro; è stato un colpo per tutti e il fatto che a scuola avesse cominciato a prendere brutti voti non ci sembrava eccessivamente rilevante; anche le maestre sostenevano che la causa fosse quello che accadeva a casa. Ma mentre io miglioravo, i suoi voti peggioravano, arrivava a dimenticarsi di scrivere i compiti sul diario pur di non farli e avere una scusa per non andare a scuola il giorno dopo. Non riuscivamo a capire, finché un giorno non abbiamo scoperto tutto: tornato a casa da scuola è scappato in bagno e si è chiuso dentro con la cartella. I compagni di classe gli avevano riempito lo zaino di carta igienica sporca di cacca e, abbiamo scoperto poi, questa era solo l’ultima di una serie di angherie che andavano avanti da quasi due anni. Ne abbiamo parlato subito con le maestre che hanno detto di non essersi mai accorte di nulla, sembravano solo i soliti litigi tra compagni, come avrebbero potuto immaginare? lui, poi, non lo aveva mai detto a nessuno e ancora oggi si rifiuta di darci l’elenco esatto di quello che gli hanno fatto passare. Nella classe di oggi non succede, ma lui non ci crede più. Non crede più in se stesso.”

Il bullismo in età scolare è un fenomeno che spesso passa inosservato, soprattutto quando si manifesta in una fascia di età ancora circondata da un’aura di innocenza, quale quella della primaria; eppure gli studi più recenti dicono che il 24% dei bambini vittime di bullismo, inizia a subire proprio nella fascia 8-10 anni. Le caratteristiche dei fanciulli che sono maggiormente presi di mira sono spesso molto simili: famiglie che, per i motivi più svariati, non riescono a dedicarsi a loro in modo costante, un carattere sensibile alle critiche e che li porta a ritrarsi nelle situazioni sociali in cui devono confrontarsi con gruppi di coetanei già emotivamente più solidi, basso livello di autostima personale e difficoltà nell’identificare figure di riferimento a cui rivolgersi in caso di necessità. Per intenderci: bambini che fanno fatica a chiedere aiuto quando si trovano in difficoltà.


Per tutti i bambini la scuola è il posto in cui si passa la maggior parte della propria giornata e i compagni di classe sono persone con cui si è obbligati a relazionarsi quotidianamente, in un’età in cui si è, quasi per definizione, “tutti amici”; per questo motivo è difficile immaginare che possano nascere già qui i primi episodi di bullismo ed è anche per questo che spesso, come nel caso citato sopra, gli stessi passino inosservati finché non assumono caratteristiche eclatanti: nessuno se lo aspetta, nessuno riesce a vederlo.



A cosa prestare attenzione



Ai bambini spesso si chiede di “perdonare” l’amichetto dopo un litigio; basta chiedere scusa e tutto passa come per magia, ma ci sono segnali che possono e devono far pensare ad una differenza nel modo in cui ci si scontra tra coetanei, perché spesso raccontano di un malessere sotterraneo:



• Progressivo isolamento dal gruppo classe (non vuole più andare a scuola, alle feste, alle gite).
• Calo dell’umore con picchi di tristezza, ansia e aggressività apparentemente immotivati.
• Calo del rendimento scolastico e totale disinteresse del bambino nei confronti dei brutti voti presi.
• Eccessivi incidenti di gioco (lividi, graffi, strappi nei vestiti).
• Costante perdita di materiale, spesso nuovo o a cui è affettivamente legato, come pennarelli colorati, giochi, merenda, ecc. giustificati spesso con “non ricordo” o con racconti confusi e palesemente inventati.
• Rifiuto a parlare di sé e a raccontare quello che succede a scuola.
• Importanti cambiamenti nell’alimentazione o nel ritmo sonno-veglia.


L’importante è ascoltare


Per genitori e insegnanti può essere davvero difficile intervenire, soprattutto perché nella quasi totalità dei casi, questi episodi vengono smascherati quando ormai la vittima ha raggiunto il limite. Dietro a questa apparente omertà c’è la profonda confusione sulla correttezza delle emozioni provate “sono miei amici, se lo dico faccio la spia!”, oppure la convinzione del non poter essere presi sul serio “se lo racconto nessuno mi crederà” o, nelle situazioni più delicate, la convinzione di dover proteggere gli adulti di riferimento, spesso i genitori, da qualcosa che i bambini temono non siano in grado di sopportare “la mamma è sempre così stanca, se non glielo dico non si preoccupa”.


Spingere un bambino a cavarsela da solo, in queste situazioni, è impensabile: nella fascia di età delle primarie non si hanno ancora gli strumenti necessari e il fallimento può portare a gravi conseguenze in termini di perdita dell’autostima, fino all’esordio di patologie cronicizzanti come disturbi di ansia o depressione. È fondamentale, invece, insegnare ai bambini, fin da piccolissimi, a riconoscere le situazioni che li mettono maggiormente a disagio, ad incoraggiarli nella loro capacità di descriverle e di riconoscerle come nocive per loro e a identificare delle figure di riferimento sul piano adulto a cui rivolgersi per ricevere l’aiuto di cui hanno bisogno. In questo modo i bambini impareranno fin da piccoli che quello che sentono e raccontano è degno di essere ascoltato e che non corrono il rischio di trovarsi da soli davanti ad una montagna troppo alta e troppo difficile da affrontare. L’unione fa la forza e gli alleati principali dei bambini sono, necessariamente, gli adulti.


La storia di Giorgia (a cura della dott.sa Tollardo)


Giorgia è una ragazza di terza media, molto timida e riservata. È piccola, anche se ha quattordici anni: adora i Pokemon e a scuola si veste con le magliette dei suoi personaggi preferiti. Per il resto, i vestiti glieli prepara sua mamma ogni sera, così non ci deve pensare. Giorgia non ha tanti amici in classe e nemmeno fuori da scuola: perché le piace leggere e passa i suoi pomeriggi tra i compiti e i libri fantasy; nel week end, con i suoi genitori, va a fare delle scampagnate o va all’oratorio. Giorgia va abbastanza bene a scuola e ha creato un bel rapporto con i suoi professori, che cerca durante l’intervallo e con i quali è molto affettuosa. Vorrebbe tanto fare amicizia con i compagni di classe, se non fosse che la prendono in giro per com’è vestita, per le sue passioni e perché è “strana”. Giorgia ci prova a essere dei loro, ma è un po’ goffa. Le femmine della classe le stanno lontane e quando si avvicinano è solo per finta, per poi tirarsi indietro all’ultimo momento, come quando la invitano a mangiare un gelato e poi non si presentano. Giorgia ci rimane sempre male e sente di essere sbagliata, soprattutto quando a scuola si convince di essere anche maldestra perché all’ora di ginnastica in spogliatoio “perde” le sue scarpe.


Incontriamo Giorgia e la sua classe al primo incontro di educazione all’affettività e lei prova subito a creare un rapporto con noi, a raccontarci di sé con i compagni che osservano la scena alzando gli occhi al cielo e annoiati dal sentire nuovamente la stessa storia. I professori ci parlano con preoccupazione, perché hanno colto i rischi per questa classe e per Giorgia. Ci chiamano per aiutarli. I ragazzi, anche i più difficili, dalla nostra esperienza desiderano sempre una cosa più di altre: avere un interlocutore che li ascolti e che, soprattutto, sia interessato a ciò che hanno da dire. Emerge presto la loro verità: Giorgia li mette in imbarazzo e si vergognano. È piccola e si veste male, parla di cose che a loro non interessano: non vogliono averci proprio a che fare.


La scuola media è un periodo complesso e difficile, di sviluppo e di crescita in cui non si è ancora adolescenti, ma nemmeno bambini. È la terra di mezzo, in cui il ricordo delle “cose da piccolo” genera vergogna da una parte e desiderio dall’altra. Giorgia rappresenta ciò che non vogliono più essere, ma che in parte ancora sono. Giorgia, in quella classe rappresenta la loro più grande paura: quella di essere smascherati. Dirlo ad alta voce a qualcuno demonizza la paura, e la rende trattabile. I ragazzi, ad uno ad uno, iniziano a dire a Giorgia che anche loro hanno dei giochi dai quali non si riescono a separare, a cui vogliono bene (come per lei i Pokemon). Giorgia sorride perché, per la prima volta, non si sente una “marziana”. Per quella classe e per Giorgia quello sarà l’inizio di un nuovo modo di stare insieme.


La vittima


Giorgia era potenzialmente la vittima perfetta: non aveva amici né una rete sociale di supporto; inoltre, era relazionalmente piccola, ancorata quindi al suo essere bambina con le trecce e con i vestiti che sceglie la mamma. Era ciò che i ragazzi intendono per “sfigata” o semplicemente non era, ancora, un’adolescente. L’intervento in classe è avvenuto in una fase precoce, nella fase di “test” della vittima ed è quindi stato possibile interrompere il circolo vizioso. C’è però una grande differenza tra “presa in giro”, tipica dell’età e “atto di bullismo”: la prima rientra negli atti trasgressivi, tipici dell’età e che hanno a che fare con il tentativo di scoperta di sé, attraverso il processo di identificazione (di ciò che ci piace di un altro) e di separazione (verso ciò che sentiamo lontano da noi); è un gioco democratico che prima o poi tocca tutti, indistintamente. Nel secondo caso il “prendersi gioco” è più stratificato e persistente e composto da azioni aggressive e parole che hanno come destinatario un’unica persona: più il tempo passa, più la portata e la gravità delle azioni aumenta.


Le ricadute psicologiche delle vittime di bullismo


Le vittime di bullismo, oltre a ripercussioni di tipo psicologico e legate all’autostima, manifestano un calo delle loro prestazioni scolastiche e una diminuzione della loro fiducia verso le proprie capacità cognitive e sociali. Spesso i ragazzi rifiutano la scuola e i diversi ambienti sociali, aumentando il loro isolamento sociale. Nel caso di Giorgia non siamo arrivati alla cronicizzazione degli atti di bullismo ma deve comunque essere sostenuta ed aiutata a capire per quale motivo, a 14 anni, ha ancora tanto bisogno della sua parte piccola.


L’importanza della prevenzione


Giorgia è stata “fortunata” perché i suoi insegnanti si sono resi conto del rischio e hanno avuto il coraggio di nominare il problema e di chiedere aiuto. Lavorare in classe, con l’aiuto di specialisti, permette di comprendere le dinamiche relazioni presenti nel gruppo classe e rilevare, contestualmente, possibili situazioni di rischio; inoltre, il lavoro sul gruppo migliora la cooperazione e la collaborazione tra i ragazzi, che imparano a “tollerare” e accettare le differenze. Li sostiene, cioè, nel compito complesso di tenere insieme pensieri, emozioni e comportamenti.


Se hai bisogno di aiuto, se sta succedendo qualcosa che non sai fino in fondo cosa sia, se ti occorre il sostegno o l’intervento degli esperti in famiglia o a scuola, contatta Alice Onlus.


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